lunedì, gennaio 14, 2008

"Usa: più assassini tra i veterani"

Un' inchiesta condotta dal New York Times sui veterani di guerra ha rivelato che, tra i soldati americani tornati dall'Afghanistan e dall'Iraq, 131 sono stati protagonisti diretti di recenti assassinii, mentre altri 349 sarebbero implicati in altri omicidi, a dimostrazione di come la scia di violenza che caratterizza la realtà dei conflitti "esterni, ma non estranei" non cessi di esistere con il ritorno in patria.
L'assenza di lungimiranza che ha caratterizzato gli ultimi interventi militari è ormai certificata dalle disastrose conseguenze sviluppatesi in quei contesti. E altrettanto chiara è la nuova metodologia impiegata nella preparazione militare, che sempre più impiega strumenti psicologici - ed anche mediatici - di incitamento alla violenza.


Tuttavia ritengo che la questione vera sia un'altra.
Se pensiamo al Vietnam, non certo l'ultimo degli "interventi per la Libertà", troveremo numerosissimi esempi che testimoniano le difficoltà e la complessità del ritorno a casa. Molti reduci non hanno sopportato il peso di quanto avevano visto e fatto ed hanno scelto la via del suicidio, mentre altri si sono dedicati ad attività di sensibilizzazione contro la guerra. Altri ancora, infine, hanno incorniciato coscienza, memoria e medaglie, fieri dell'immagine di Eroi.
Ora, se è vero che gli interventi in Afghanistan e in Iraq rispondono in parte a logiche diverse (ma non poi di molto, se non per il ruolo avuto dall'opinione pubblica e da una parte degli Stati, che si sono opposti con più forza - ma invano - al progetto di "liberazione" statunitense), è vero anche che il ragionamento da fare deve procedere su una doppia linea.
Se è piuttosto ovvio, infatti, riscontrare nei reduci delle pesanti influenze dovute al conflitto, è anche necessario chiedersi "chi erano" e "chi sono" i militari selezionati, preparati e inviati in guerra.
Chi si è impegnato in ricerche di questo tipo ha cercato di dimostrare l'irresponsabilità che caratterizza proprio le fasi di selezione dei giovani, spesso trascinati via da realtà già di per sé complesse, diseredate e violente e catapultati in campi di addestramento. All'orizzonte l'ultima tappa: l'Iraq.
La prima e vera questione, dunque, non riguarda le conseguenze psicologiche e sociali del conflitto al momento del ritorno, quanto le caratteristiche dei soldati al momento dell'invio. Caratteristiche che non possono non essere già, almeno in parte, una base per la violenza successiva (si ricordi Abu Ghraib), e che vanno ad impattare un contesto già di per sé conflittuale, aggiungendovi frustrazioni, rabbia, volontà di rivalsa.
Inchieste di questo genere, pertanto, possono rispondere alla necessità di comprendere appieno le conseguenze dei conflitti e le caratteristiche dell'addestramento, ma tralasciano un aspetto fondamentale: quello individuale e di gruppo, e quello delle responsabilità della selezione dei "liberatori". Liberatori che diventano assassini.